Cons. Stato, Sez. III, 16 aprile 2014, n. 1922 - Conseguenze a carico della parte che pone in essere comportamenti qualificabili quali abusi del diritto processuale
Abstract
La decisione affronta un nodo di particolare rilevanza ed attualità quale quello relativo alle conseguenze a carico della parte che pone in essere comportamenti qualificabili quali abusi del diritto processuale.
L’attualità della questione deriva dalla circostanza che il decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, recante “Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari” all’art. 41 prevede, in particolare, misure volte a contrastare l’abuso del processo, intervenendo sull’art. 26 del Codice processo. Tale disposizione prevede, tra l’altro, che il giudice amministrativo possa anche d'ufficio condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste.
Tale disposizione benché limitata ai profili relativi alla lite temeraria è, comunque sintomatica del disfavore che il legislatore annette ai comportamenti scorretti sul piano processuale.
Anche la giurisprudenza degli ultimi anni ha dedicato particolare attenzione al tema.
Classico esempio di abuso del diritto processuale è proprio quello relativo all’eccezione di giurisdizione sollevata in appello dal ricorrente che in primo grado aveva adito il giudice amministrativo, risultando sul punto esplicitamente (o anche implicitamente) vittorioso.
Di fronte a siffatta eccezione si pone il nodo problematico relativo all’ammissibilità o meno di tale eccezione ed alle conseguenze che dalla sua proposizione scaturiscono nei confronti di chi l’ha sollevata.
Sul punto si sono succeduti nel tempo diversi orientamenti. Secondo la posizione tradizionale era ammissibile l’eccezione di giurisdizione sollevata in appello nei confronti dello stesso giudice adito con il ricorso di primo grado (in questo senso, Cons. St., VI, n. 5454/2009).
A siffatto orientamento si è andato contrapponendo un indirizzo più recente secondo cui un simile cambio di strategia, all’insegna del venire contra factum proprium, ricadrebbe nel generale divieto dell’abuso del diritto (processuale), sanzionabile con la radicale inammissibilità del motivo di appello (cfr. Cons. St., V, n. 5421/2013 e 656/2012 e III, n. 2857/2012).
La pronuncia in esame, invece, opta per una soluzione intermedia, facendo però salvo il tardivo pentimento sulla giurisdizione ovvero quello che con formula suggestiva è stato definitivo come “il diritto ad avere torto” (v., in questi termini, Cass. SS.UU., n. 7097/2011).
Secondo la III sezione, infatti, l’orientamento da ultimo richiamato della Corte di Cassazione realizza la soluzione più equilibrata e convincente, sul rilievo che, al cospetto di un tempestivo motivo di appello che impedisce il formarsi del giudicato, l’art. 37 c.p.c. riacquisti la sua massima espansione, a garanzia del fondamentale principio di cui all’art. 25 Cost, secondo cui nessuno può essere destituito dal giudice naturale precostituito per legge (Cass. SS.UU., n. 26129/2010).
Tuttavia, della condotta processuale posta in essere all’insegna del venire contra factum proprium deve tenersi conto, secondo il Collegio, in sede di condanna alle spese di lite che, di conseguenza, saranno poste a carico di chi ha sollevato l’eccezione di giurisdizione in appello.
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