Giurisprudenza annotata

6.4. CGCE, Sentenza 26 marzo 2009, C-326/07


Abstract


Con la sentenza in rassegna la Corte definisce il ricorso intentato dalla Commissione Europea con riguardo all’inadempimento degli obblighi comunitari di cui l’Italia si sarebbe resa responsabile per effetto dell’art. 1, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10 giugno 2004, recante definizione dei criteri di esercizio dei poteri speciali, di cui all’art. 2 del decreto legge 31 maggio 1994, n. 332, convertito, con modifiche, dalla legge 30 luglio 1994, n. 474. Tra i più significativi poteri individuati dal citato decreto del ’94, ed esercitabili nell’ambito delle società privatizzate attive nei settori di più evidente rilievo pubblicistico, possono segnalarsi: l’ “opposizione all’assunzione da parte di investitori di partecipazioni rilevanti che rappresentino almeno il 5% dei diritti di voto o la percentuale minore fissata dal Ministro dell’Economia e delle Finanze con decreto” (art. 1, comma 2, lett. a), d. l. 474/1994); il “veto all’adozione delle delibere di scioglimento delle società, di trasferimento dell’azienda, di fusione, di scissione, di trasferimento della sede sociale all’estero, di cambiamento dell’oggetto sociale, di modifica dello statuto che sopprimono o modificano i poteri speciali” (art. 1, comma 2, lett. c), d. l. 474/1994). In particolare, a parere della Commissione europea, il citato art. 1, comma 2, d. P. C. M. 10 giugno 2004 contrasterebbe con gli articoli 43 e 56, TCE, nella parte in cui non definisce con sufficiente chiarezza e precisione i limiti ed i presupposti per l’esercizio dei richiamati poteri speciali attribuibili al Ministero dell’Economia e delle Finanze. Pertanto, tale contesto normativo, che ha tra l’altro giustificato l’introduzione dei poteri speciali con riguardo a società quali ENI, Telecom Italia, Enel e Finmeccanica, non consentirebbe agli investitori di conoscere le condizioni legittimanti l’esercizio delle prerogative di diritto pubblico, così comprimendo le libertà comunitarie di stabilimento e di circolazione dei capitali.

La Corte, allineandosi ad una giurisprudenza pressoché costante, accoglie le censure mosse dalla Commissione, pur sottolineando come la previsione di poteri societari speciali (ovvero di golden share da assegnare ai soci pubblici) non contrasti ex se con il diritto comunitario, così riconoscendo la sussistenza di incomprimibili interessi pubblici che solo mediante l’esercizio di poteri prettamente gestori possono essere in concreto tutelati. Onde evitare che però di dette prerogative si faccia un uso indiscriminato e strumentale, volto a proteggere indebitamente i cosiddetti “campioni nazionali” dagli interessi di eventuali investitori stranieri, la Corte esige che le leggi interne ne aggancino l’esercizio a parametri certi, definiti e strettamente collegati, o comunque facilmente collegabili, ai valori pubblicistici che lo Stato-membro intende salvaguardare, nel rispetto del principio di proporzionalità. Proprio intorno a questi profili si appuntano le principali critiche che il Giudice comunitario rivolge alla normativa italiana, al fine di sancirne la contrarietà alle disposizioni del Trattato.


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