Giurisprudenza annotata

9.1. Corte costituzionale, sentenza 17 novembre 2010, n. 325


Abstract


La Corte costituzionale ha aderito all’orientamento del legislatore statale nel considerare “eccezionale” il modello di affidamento dei servizi pubblici locali (SPL) c.d. “in house”, contribuendo, probabilmente, a rendere recessiva o, quantomeno, meno inflazionata, la scelta di tale modello organizzativo della gestione dei SPL da parte degli enti locali. 
La Consulta è stata chiamata a sindacare le norme statali concernenti la disciplina dell’in house providing poiché ritenute dalle regioni ricorrenti troppo limitative delle proprie competenze legislative in ordine ad asserite prerogative da ricondurre alla materia dei “servizi pubblici locali”. 
Segnatamente, le censure mosse alla Corte riguardavano: 
- la versione originaria dell’art. 23-bis del d.l. n. 112/2008; 
- la versione della suddetta disposizione, come modificata dal d.l. n. 135/2009; 
- l’art. 15, comma 1-ter del d.l. n. 135/2009. 
La Corte ha confermato la riconduzione alla materia “tutela della concorrenza” ex art. 117, comma 2, lett. e), Cost. delle norme disciplinanti l’in-house providing, così sancendo definitivamente una competenza legislativa esclusiva statale che non lascia margini operativi “di manovra” ai legislatori regionali per definire, ad esempio, quali debbano essere i criteri discretivi per procedere agli affidamenti in house. 
Innanzitutto, essendo il modello organizzativo in parola espressamente dedicato alla gestione di un “servizio pubblico locale di rilevanza economica”, la Corte ha svolto un’analisi esegetica che ha condotto alla sostanziale equiparazione di tali servizi alla categoria dei “servizi di interesse economico generale” (SIEG) di concezione comunitaria (“per «interesse economico generale» si intende un interesse che attiene a prestazioni dirette a soddisfare i bisogni di una indifferenziata generalità di utenti e, al tempo stesso, si riferisce a prestazioni da rendere nell’esercizio di un’attività economica, cioè di una «qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato, anche potenziale”). Proprio in tale contesto, tanto il legislatore comunitario, quanto la Corte di giustizia UE, hanno costantemente ridotto nel tempo l’ambito degli affidamenti c.d. “in house”, assoggettando tale modello ad una serie di stringenti requisiti elaborati al fine di salvaguardare la tutela della concorrenza tra imprese in contesti di mercato contendibili com’è quello dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (partecipazione totalitaria pubblica delle quote della società “in house”; controllo analogo da parte dei referenti pubblici sulla società, assimilabile a quello esercitato sugli uffici in cui si articola la PA controllante; prevalenza dell’attività svolta dalla società “in house” nei confronti del soggetto pubblico di riferimento). A questi requisiti il legislatore italiano ne ha aggiunti degli altri che sono stati tacciati di incompatibilità con le norme comunitarie in materia e che hanno reso ancor più “problematico” per gli enti locali ricorrere al modello di affidamento in house. La Consulta, invece, ha chiarito che “al legislatore italiano non è vietato adottare una disciplina che preveda regole concorrenziali – come sono quelle in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento di servizi pubblici – di applicazione più ampia rispetto a quella richiesta dal diritto comunitario” e, anzi “va rilevato che le norme censurate dalle ricorrenti non possono essere considerate sproporzionate od inadeguate solo perché, attraverso la riduzione delle ipotesi di eccezionale affidamento diretto dei servizi pubblici locali, rafforzano la generale regola pro concorrenziale, prescelta dal legislatore, che impone l’obbligo di procedere all’affidamento solo mediante procedure competitive ad evidenza pubblica”.

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