Giurisprudenza annotata

14.10. Cassazione, Sezioni Unite civili, 16 febbraio 2009, n. 3677


Abstract


La Corte di Cassazione si è pronunciata in data 16 febbraio 2009 in merito alla revoca di due posizioni dirigenziali conseguenti ad una modifica della dotazione organica dei dirigenti nel Comune di Limbiate (MI), a seguito della quale erano state create due posizioni di staff poi eliminate a distanza di soli due mesi.

Innanzitutto va chiarita la devoluzione al Giudice Ordinario di tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze della P.A., ai sensi dell’art. 63 del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e della nuova formulazione dell’art. 384 c.p.c., in base al quale “Le controversie concernenti gli atti di organizzazione dell'amministrazione rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, e sono passibili di disapplicazione, in tutti i casi in cui costituiscano provvedimenti presupposti di atti di gestione del rapporto di lavoro del pubblico dipendente”. È vero che, come invocato dal Comune, in alcune precedenti pronunzie (Ord. 8 novembre 2005, n. 21592; Ord. 13 luglio 2006, n. 15904; Ord. n. 8363/2007) la Cassazione aveva affermato la giurisdizione del Giudice Amministrativo “in relazione alle variazioni della pianta organica dell'ente pubblico, o comunque in relazione ad atti organizzativi di carattere generale”, ma in quei casi “il provvedimento amministrativo non veniva in considerazione quale atto presupposto della gestione del rapporto di lavoro, perché il nuovo modulo organizzativo così introdotto non incideva direttamente sulla posizione del singolo dipendente, ma su queste aveva solo una efficacia indiretta e, d'altra parte, il pregiudizio di cui astrattamente avrebbero potuto risentire poteva essere eliminato …  non già dalla disapplicazione, ma dall'annullamento vero e proprio del provvedimento amministrativo”.

Ciò posto, il nesso esistente tra il provvedimento amministrativo di autorganizzazione (dichiarato illegittimo dalla corte territoriale per la contrarietà della delibera sia all’art. 6, c. 14, della L. n. 127/97, “che prescrive, per i comuni con più di quindicimila abitanti, la rilevazione dei carichi di lavoro quale presupposto indispensabile per la rideterminazione delle dotazioni organiche”, sia all’art. 39, c. 1, della L. 449/97, “che obbliga gli organi di vertice delle amministrazioni alla programmazione triennale del fabbisogno di personale”) e l’atto paritetico di gestione del rapporto di lavoro conduce ad ammettere la conoscibilità della situazione giuridica soggettiva dedotta dal lavoratore da parte dell’A.G.O.

Diversamente dal giudizio della Corte d’Appello, che non aveva consentito la reintegra nell’incarico dirigenziale ritenendo che essa sarebbe stata possibile solo a seguito di motivi discriminatori alla base della revoca, non riscontrati nella fattispecie, la suprema Corte afferma invece che l’attribuzione del solo risarcimento rappresenterebbe “una disapplicazione dimidiata” dell’atto organizzativo illegittimo, e non costituirebbe effettiva disapplicazione dell’illegittimo provvedimento presupposto. I dirigenti, che non hanno potuto usufruire della c.d. clausola di salvaguardia, in base alla quale avrebbero dovuto svolgere mansioni almeno equivalenti a quelle che svolgevano in precedenza, hanno dunque diritto alla riassegnazione dell’incarico, mentre “il provvedimento di macro organizzazione (non sottoposto ad annullamento) da un lato rimane operativo in via generale, e, dall'altro, essendo privato di effetti nei confronti del dipendente interessato, non vale a sorreggere l'atto di gestione consequenziale”.

Con riferimento alle conseguenze sul piano del rapporto di lavoro, la Cassazione ricorda quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella Sent. 103/2007, allorquando i giudici della Consulta affermarono che “la prevista contrattualizzazione della dirigenza non implica che la pubblica amministrazione abbia la possibilità di recedere liberamente dal rapporto di ufficio e che quest'ultimo, sul quale si innesta il rapporto di servizio sottostante, pur se caratterizzato dalla temporaneità dell'incarico, deve essere connotato da specifiche garanzie, in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell'azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione, affinché il dirigente possa esplicare la propria attività in conformità ai principi di imparzialità e di buon andamento dell'azione amministrativa ex art. 97 Costituzione. Ha aggiunto la Corte che, a regime, la revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti può essere conseguenza solo di una accertata responsabilità dirigenziale, in presenza di determinati presupposti ed all'esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato”.

Alla luce di siffatte considerazioni, il principio fatto emergere dalla suprema Corte è il seguente: “in caso di illegittimità, per contrarietà alla legge, del provvedimento di riforma della pianta organica di un comune, con soppressione delle posizioni dirigenziali, questo deve essere disapplicato dal giudice ordinario, con conseguente perdita di effetti dei successivi atti di gestione del rapporto di lavoro, costituiti dalla revoca dell'incarico dirigenziale, non sussistendo la giusta causa per il recesso ante tempus dal contratto a tempo determinato che sorge a seguito del relativo conferimento, con diritto del dirigente alla riassegnazione di tale incarico precedentemente revocato, per il tempo residuo di durata, detratto il periodo di illegittima revoca”.

Vengono respinte le richieste dei danni morali da parte dei due dirigenti, poiché le loro censure si sono concentrate esclusivamente sulla risarcibilità, mentre invece il danno, non essendo “in re ipsa”, “va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento”. Dunque, “Il danno c.d. esistenziale, non costituendo una categoria autonoma di pregiudizio, ma rientrando nel danno morale, non può essere liquidato separatamente solo perché diversamente denominato. Il diritto al risarcimento del danno morale, in tutti i casi in cui è ritenuto risarcibile, non può prescindere dalla allegazione da parte del richiedente, degli elementi di fatto dai quali desumere l'esistenza e l'entità del pregiudizio.”

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